martedì 22 agosto 2017

Una vacanza. Non un viaggio

Lungo la pista che da nord-est scende dal Song Kol quattro anni fa mi capitò una delle cose che più ho impressa dei miei viaggi. Io Giacomo e Andrea ci fermammo per fare una foto alla quale seguirono chiacchiere e sigaretta, e nel frattempo si avvicinò a noi il solito bambino curioso uscito da una casetta li vicino.
Ricordo che avevo in una borsa un astuccio pieno di pennarelli e block notes presi all'ultimo momento da regalare ai bambini che avremmo incontrato, e ricordo anche che ne avevo presi troppi e che ci litigavo ogni volta che dovevo frugare tra i bagagli, così li regalai a quel bimbo.
Quello che non dimentico è la gioia sfrenata che lessi nei suoi occhi e nella sua corsa a perdifiato verso casa con le mani piene di carta e pennarelli, il suo continuo voltarsi verso di noi per salutarci e ringraziarci e la corsa felice e scomposta. Mi sono sempre pentito di non avere avuto la prontezza di tirare fuori la telecamera che di solito durante quel viaggio avevo sempre in mano...ma in fondo non importa, perchè non lo dimenticherò mai...
Ci rimangono 3 giorni da spendere prima di consegnare le moto a Bishkek, e da Kochkor dove dormiamo decidiamo di fare un giro ad anello che ci porti verso la Suusamyr Valley per poi tornare a Kochkor facendo una pista che valica il passo Karakol, a sud della catena di montagne che ci separa proprio dalla capitale.
L'andata verso Suusamyr in effetti almeno per i primi 100 km è alquanto noiosa, tanto che ad ora di pranzo passiamo due ore a costruire una diga di sassolini su un fiume all'ombra di una betulla per trovare un pò di eccitazione (87 anni in due....). Ci rifacciamo parzialmente gli occhi solo negli ultimi 70 km sterrati lungo il fiume Kokomeren, lungo una gola che stringe le acque super blu. Dopo un pò di vagabondaggio alla ricerca di un posto decente dove dormire ci piazziamo in quello che dovrebbe essere un campo di yurte e che in realtà è due yurte, due cessi di cui uno con la porta divelta e vista tangenziale e 5 container adattati a camere. Una porcheria insomma, utile solo a farci smaltire un paio di buste di risotto scaldato sul fornelletto a gas pur di evitare una cena ad alto potenziale schifezza.
Durante la notte fa un freddo cane, anche perchè "il vento" (ma più probabilmente Giacomino che si alza a fare pipì) lascia la porta spalancata. E fuori piove. Piove. Piove pesantemente e rumorosamente sulla lamiera del nostro loculo 5 stelle superior.
Quando l'impellente bisogno costringe anche me ad abbandonare le sacre coltri mi accorgo che non piove più, ma sotto il cielo pesante le cime delle montagne intorno a noi sono imbiancate di neve. Ci mettiamo circa 10 minuti per decidere che se qui siamo a 2000 metri e la quota neve a occhio è a 2500/2700, fare il passo Karakol a 3500 metri in una valle secondaria a traffico zero è una cosa che proprio non ci va e quindi l'ultimo giorno di viaggio non sarà domani ma oggi. Si va a Bishkek.
Ci imbacucchiamo (mi imbacucco) di tutto punto per affrontare il valico a 3200 sulla M41 che sta proprio qui a pochi chilometri e in un paio d'ore siamo di nuovo all'hotel Salut dove 25 giorni fa abbiamo iniziato le nostre peregrinazioni.
Due giorni di cazzeggio, dormite, chiacchiere con altri viaggiatori, progetti già per un prossimo viaggio, birre, cibo è tutto quello che chiediamo prima di saltare sul volo che ci riporterà in Italia.

Non è stato un vero e proprio viaggio, è stata una vacanza avventurosa. Senza lo stress di una tabella di marcia, senza la pressione di tempi da rispettare, visti che scadono, contrattempi e rompicapi da risolvere, senza guasti, con i giusti tempi per riposare.
L'avere a disposizione tempo, la cosa più preziosa, ci ha dato la serenità di poter affrontare qualche pista ostica che probabilmente per prudenza in un viaggio con un programma da rispettare per prudenza non avremmo fatto.
E' stato bello, bellissimo, anche tornare al lavoro senza la stanchezza mentale e fisica degli anni precedenti.
Ma in fondo....lo stress, la fatica, l'adrenalina, le bestemmie e i guai...sono le cose che rendono indimenticabili i viaggi.
E un pò questo mi è mancato.

martedì 15 agosto 2017

Il lago sbagliato

Kel Suu. Seguo la pagina facebook di qualchecosa del Kyrgyzstan, e un giorno sparano questo video di due tizi che su un Land Rover Defender si arrampicano a forza di bestemmie e fumate nere dallo scarico lungo la classica verdissima valle kirgiza fino ad un lago pazzesco incastrato tra pareti di roccia a strapiombo.
Il video in una settimana grazie a Repubblica viene rimpallato da un mare di gente perchè...dai, perchè è pazzesco. Quella sera stessa ricordo di aver chiamato Giacomo e avergli detto "ci andiamo".
Nei giorni della nostra prima visita a Naryn una settimana fa il cagotto ed il mal tempo ci hanno fatto rivedere i piani di "attacco" al lago, prendendola larga e mettendoci in mezzo l'Yssyk Kol, l'abbruttimento ed il passo Tosor.
Ma ora che siamo di nuovo a Naryn ed il tempo è sereno (ma non caldo, per niente) niente più ci ostacola da partire per questi 140km che ci separano dalle acque turchesi del Kel Suu.
I primi 60 km di pista, miliardo di buche a parte, sono facilissimi, ma i successivi 3 lasciano intuire che quassù deve essere piovuto molto di recente (stanotte forse) perchè il fondo duro e di ghiaia sempre più spesso lascia il passo a macchie fangose e scivolose. Poche centinaia di metri sopra le nostre teste una netta striscia di neve fresca dimostra che non ci sbagliamo di troppo...
Raggiungiamo rabbrividendo il check point militare al quale mostriamo passaporti ed il permesso speciale fatto qualche giorno fa. Siamo a 3400 metri e fa un freddo cane, non ho un termometro ma da quanto sono vestito e per il freddo che ho saranno 5 gradi.
Superata la sbarra del check point, la strada diventa un casino: una fanga profonda, scivolosa e densa si stende su tutta la larghezza della carreggiata. Mi alzo sulle pedane, culo indietro e seconda marcia spalancata, in qualche modo passo il primo chilometro. Giacomino dietro di me rimane un pò indietro, lui non ha nè le gomme ben tassellate come le mie nè la scuola "fangazza del Tassobbio" a dargli quel minimo di confidenza con terreni così.
Sigaretta e riunione di famiglia. La strada davanti a noi prosegue  guale fin dove possiamo vedere, abbiamo ancora 70 km per l'accampamento di yurte prima del lago, dei quali circa metà sulla pista principale (questa) e l'altra metà che dio solo sa come può essere.
Xenia e Cristiano ci hanno detto che è tutto facile, ma questo fango mescola le carte in tavola.
Come sempre tra noi, le decisioni sono molto facili. E la decisione è che qui la fatica supera il gusto, e visto che non dobbiamo dimostrare niente a nessuno ma solo divertirci giriamo le moto e diciamo "arrivederci" al Kel Suu.
Le guardie ci vedono ritornare dopo meno di mezz'ora da quando eravamo passati, ci guardano un pò stupiti e a gesti spiego loro perchè siamo già li. Sorridono, ci augurano qualcosa che non capisco, e di nuovo la sbarra si alza sopra le nostre teste.
Altro miliardo di buche, altro rifornimento a Naryn che stavolta passiamo di volata senza fermarci, e imbocchiamo la pista per il Song Kol che avevamo saltato giorni fa a causa del malessere di Giacomo.
Siamo già stati qui e sappiamo che la pista che sale ai 3000 metri dell'altopiano è favolosa, un serpente che sale e scende e si contorce tra colline e montagne sempre più alte, vallate verdissime e torrenti ghiacciati. In fondo all'ultima vallata, la strada si impenna in decine di tornanti che ricordavo meno scavati dalla pioggia, ma comunque con l'Africa si va su in scioltezza e nemmeno mi disturbo ad alzarmi in piedi per evitare le sconnessioni. La foto dei tornanti visti dall'alto è un grande classico di tutti i viaggiatori che si arrampicano fin qui.
Finiamo per accamparci in un gruppetto di yurte staccato dal grande accampamento gestito dal CBT (una sorta di ente del turismo kirgizo), vicino ad una piccola laguna, ad una radura con buffi  montarozzi di terra coperti da erba e cavalli che brucano e si abbeverano.
Passeggiamo, parliamo, ci godiamo il tepore del sole che immancabilmente al tramonto si trasformerà in un gelo mortale (almeno per me che soffro molto il freddo). Ce la godiamo, e l'aver rinunciato al Kel Suu non ci pesa più di tanto...
Qua siamo a 3000 metri, il pomeriggio è tiepido e la notte si schiatta. Mi chiedo solo che freddo avrebbe fatto lassù  a 3500 considerando che a mezzogiorno c'erano 5 gradi !!
Per la cronaca ceniamo alle 20, temporeggiando perchè la yurta dove mangiamo è scaldata a cacca di bue e si sta un amore. Ma già prima delle 21.30 siamo in branda.
Abbigliamento di Radini: mutande, calze, maglia a maniche lunghe, sacco a pelo Decathlon con temperatura comfort 15°e copertina leggera.
Abbigliamento di Fantozzi: maglia termica a maniche lunghe, pile pesante, pantaloni lunghi con calzettoni di spugna rimboccati sopra, cappello di lana calato sugli occhi, sacco a pelo con temperatura comfort 4°, copertona pesantissima e coperta di pecora.
E svuotamento della vescica più volte rimandato al mattino per non abbandonare le sacre coltri durante le 11 (undici!) ore di sonno.


domenica 13 agosto 2017

Pereval Tosor

La pioggia violenta che ieri pomeriggio ci ha fatto riparare sotto ad un albero per limitare i danni (ecco un consiglio, non riparatevi durante una tempesta sotto alberi carichi di albicocche mature se non volete la marmellata sul casco), il giorno dopo si è trasformata in cupe nubi nere sulle montagne e sprazzi di pioggia mista sole.
Cristiano ieri ci ha detto che Sambor di solito da queste parti si ferma alla guesthouse Tamga, e bene abbiamo fatto a fidarci della dritta. Dietro al solito anonimo cancello di ferro senza uno straccio di scritta che dica "quisidorme" c'è una sorta di micro villaggio fatto di casette, una yurta avvolta in un giardino lussureggiante, uno shop pieno di cappelli buffi, un pastore tedesco enorme, vecchissimo e sordo come una campana  con lo sguardo cosi triste da farti venire voglia di grattargli le orecchie per ore per farlo sorridere.
Ci abbruttiamo un giorno intero perchè il passo Tosor sta lassù, a 3800 metri e solo 40 km di pista da dove siamo, e se quelle nubi nere dicono la verità è da deficienti pensare di salire oggi. Noi deficienti un pò lo siamo, ma non così tanto.
Andiamo a letto alle 22 giusto perchè alle 20.30 sarebbe troppo da sfigati, e per questo alle 6.30 ho un occhio già aperto e....c'è un sole che spacca!!! Daje, si va e con le migliori condizioni!
Costeggiamo per qualche chilometro il blu perfetto dell'Yssyk Kul e svoltando sulla pista ce lo mettiamo negli specchi retrovisori per perderlo di vista dopo poco. 
Come tutti i giorni in cui so che devo affrontare qualche pista "scomoda" mi sento zavorrato, con il freno a mano tirato. Sono sempre stato un diesel, anche nei giri in giornata in Italia alla mattina faccio molta fatica a carburare e lasciarmi andare e oggi è uguale. Procedo piano piano cercando di capire cosa ci aspetta, ma in realtà qualcosa so già perchè prima di partire ho fatto i compiti.
In più Xenia a Kazarman mi ha dato informazioni di prima mano (lei e Martin sono stati qui meno di un mese fa), ma si sa....ognuno ha la propria abilità, sensibilità, paure, moto, quindi tutti i consigli trovano sempre un pò il tempo che trovano.
Perdo per un momento la direzione saltando una svolta, ma una volta imboccata la traccia corretta diventa tutto estremamente semplice e chiaro. Chiaro intanto che ci sono tratti di terra indurita dal sole che sembrano le onde del mare da fare o in prima marcia piano piano, o in terza a tutto fuoco per saltellare sulle creste (che saranno alte 20 cm....).
Prudenza e incapacità ci fanno optare per la calma e tra pascoli, branchi di cavalli, greggi di pecore cagasotto saliamo e saliamo e saliamo. Alla prima pausa foto/sigaretta dopo un'ora abbiamo percorso 27 km, e siamo saliti di 1800 metri di quota! Dai 1600 metri del lago ora siamo a 3400 e questa ascesa così rapida e repentina mi fa girare un pò la testa anche se l'altitudine in genere non mi crea mai problemi.
Mancano gli ultimi 400 metri di dislivello e per quel che ne so una quindicina di chilometri al passo. L'avvicinamento viene scandito da un crescente numero di pozze d'acqua ancora ghiacciate, e dal paesaggio che diventa sempre più un caos di rocce, frane, massi enormi spaccati dal gelo.
Gli ultimi tre chilometri sono motociclisticamente demenziali: ripidi, distrutti da canaloni pieni di pietre seguiti da tornanti in salita ricoperti di sassi grossi appuntiti e smossi, avvallamenti in cui il davanti della moto sparisce per impennarsi subito dopo rischiando di piantarmi la carena tra le gengive.
Si va su solo ed esclusivamente in prima e solo raramente accennando una timida seconda (sfrizionando perchè moto a carburatori e quasi 4000 metri vanno d'accordo il minimo indispensabile), normalmente ci sono 1-2 secondi di tempo per saltare su un pietrone, atterrare e decidere se prendere quello successivo dritto per dritto o tentare di evitarlo zigzagando sul sentiero.
All'uscita di un tornante prendo la direzione sbagliata e la pago con una clamorosa pietrata sotto al paracoppa, talmente forte che a distanza di 10 ore ancora non ho voluto guardare sotto per vedere cosa è successo. Non piovono liquidi, quindi non è stata disastrosa...tanto basta.
Mi fermo e sbracciandomi evito almeno a Giacomo di fare il mio stesso errore, e immediatamente dopo siamo in cima.
Non è una vittoria, ma è una bella liberazione! Questi ultimi chilometri sono tra i più difficili che abbia mai fatto in moto, senza dubbio....e li ho fatti senza cadere. Grazie mamma per le gambe lunghe :) 
Una paglietta e tanti "porca troia" ansimanti dopo cominciamo la lunga discesa fino a Naryn (40 km per salire, 170 per scendere) che ci porterà a ricongiungerci con la verdissima e favolosa valle fatta tre anni fa insieme a Stefano. 
Gli spazi rocciosi e opprimenti del lato nord del passo si aprono diventando immensi, la strada migliora tanto riservandoci ancora solo poche difficoltà generalmente legate a deviazioni per aggirare frane che ci fanno giocare gli ultimi jolly. 
Poi diventa tutto un fare foto, fermarsi a chiacchierare, aprire le prese d'aria sulle giacche per godere del caldo ritrovato, scivolare leggeri su una pista liscia come un biliardo.
A 80 km da Naryn riconosco il posto dove nel 2014 abbiamo riempito i serbatoi ormai deserti, trascorso la notte e conversato con Gula che parlava un buon inglese. C'è un vecchietto che nel mini-shop ci vende due barrette di cioccolata e del tè freddo. Gli chiediamo di Gula e non pare capire, scrivo sulla strada di ghiaia e faccio gesti e capisce che siamo già stati qui, chiama il nipote che è il fratello di Gula.
Seduti nella modesta casetta del nonno, Azamat ci racconta che la sorella lavora a Bishkek e sta studiando il cinese, lui invece studia e sogna di venire a studiare in Europa e come tutti i giovani kirgizi che parlano un pò di inglese ha una gran voglia di fare pratica e fa un mare di domande.
Mentre ci parla con cosi tanta speranza della sua voglia di venire a fare l'università in Italia non posso non provare un pò di tristezza perchè questi ragazzi non si rendono conto di quanto sia maledettamente difficile e costoso riuscirci....
In bocca al lupo Azamat, noi dobbiamo ripartire ma tu metticela tutta!
Naryn ci accoglie nuovamente, calda e stranamente vuota di turisti. Nella guesthouse che abbiamo lasciato piena di gente solo due giorni fa oggi dormiamo solo noi.
Ci rimangono solo pochi giorni, mi rimangono pochi tasselli ma abbiamo ancora una meta importante a darci la carica...incrociamo le dita per il meteo!! 

Ci si vede a Kyrgyzstan

Il giorno di abbruttimento a Naryn ci è servito non solo per stabilire chi è il più forte nei 100 metri ma anche per fare il permesso per il lago Kel Suu, una meraviglia incastrata tra le montagne del Tien Shan a pochi chilometri dalla Cina. E’ da quando abbiamo visto un bellissimo video su Youtube questa primavera che smaniamo per venirci, e ora siamo a soli 136 chilometri dalle sue acque turchesi.
Però, c’è un bel però. Il meteo.
Qua non siamo in Tajikistan dove l’aridità limita le precipitazioni estive a quasi zero…il passaggio tra un paese e l’altro a pochi chilometri da Sary Tash rende chiaramente l’idea della differenza climatica dei due paesi. Venendo dal Tajikistan e superando il passo Kyzyl Art si passa dalla desolata aridità ai pascoli rigogliosi, dalla roccia nuda alle foreste di abeti. Il Pamir è un formidabile spartiacque climatico.
Il lago Kel Suu è a  3500 metri di altitudine, è impensabile andarci nei prossimi due giorni nei quali hanno messo pioggia e temporali perché il rischio, oltre che rovinarsi la giornata, è che lassù nevichi. E comunque le acque turchesi del lago con il maltempo sarebbero grigie…
Dopo lunghe discussioni, piani ed ipotesi, decidiamo di non rimanere un altro giorno fermi a Naryn a fare la muffa ma di spostarci verso nord est lungo la sponda meridionale del lago Yssyk Kol fregandocene dell’eventuale maltempo perché tanto è tutto asfalto, da li tentare di fare un passo di montagna bello tosto (il passo Tosor) che ci riporterebbe dopo un paio di giorni di nuovo a Naryn, per poi sfruttare gli ultimi giorni del nostro viaggio che dovrebbero essere baciati dal sole (grattata di balle) per fare il Kel Suu.
Circa a metà dei 280 km che ci separano dal villaggio di Tosor (dove parte la pista per il passo) scorgiamo in lontananza un uomo capelli lunghi e camicia che si sbraccia in mezzo alla strada. E’ Cristiano, il Master of Puppets del Kirgizstan! Quello che due giorni fa da Milano organizzava l’appuntamento con Xenia per lo scambio della gomma. Con lui ci sono la sua compagna Sabrina, e Wizz che è partito dall’Italia due mesi fa con la morosa e che sta andando in Mongolia. Wizz è un matto (ma matto vero, visto che è andato a Capo nord in moto a febbraio) e nonostante sia molto giovane è già una celebrità tra i motociclisti viaggiatori italiani.
Insomma…. ’sto kirgizstan è veramente microscopico! Continuiamo ad imbatterci in amici, conoscenti, ad incontrare in luoghi diversi sempre le stesse persone (tipo Joshua, incontrato stamattina per la terza volta a 600 chilometri da dove lo avevamo visto giorni fa). Sembra una festa più che un viaggio.
Dopo i reciproci auguri di proseguimento ognuno per le proprie mete, io e Giacomo constatiamo felicemente che il maltempo ce lo siamo lasciati alle spalle e che davanti a noi il cielo è sereno e la temperatura una volta raggiunte le sponde dell’immenso Yssyk Kol è finalmente piacevole.

La nostra felicità, è superfluo dirlo, durerà circa i 18 minuti necessari ad un nerissimo fronte temporalesco per inseguirci e raggiungerci riducendoci a crostini di pane ammollati nella zuppa

La maledizione di Montezuma

Tutte le strade portano a Kazarman, l’ho già scritto diverse volte negli anni scorsi.
E visto che è “solo” la quarta volta che passiamo di qui, stavolta almeno prendiamo una strada diversa per metterci alle spalle la perla del Kirgizstan (sono abbondantemente ironico, ovviamente).
Decisi ad andare ad una delle vere perle di questa parte dell’Asia Centrale, il lago Song Kol, ci dirigiamo sulla facile pista sterrata verso est procedendo molto distanziati perché la polvere che si solleva è una nube malefica, e perché Davide è ancora in crisi con il concetto che in sterrato per non ondeggiare come una barca ad ogni mucchietto di ghiaia devi aprire il gas. Aprirlo con decisione, non fare finta.
Giacomo da stamattina non sta per niente bene. Si lamenta (e questa non è una novità), sbuffa, dice che è fiacco, appena può si spatascia al suolo come un gatto spiaccicato sull’asfalto. Per un po’ lo prendo per il culo, poi sdrammatizzo, poi lo ignoro…di solito funziona.
All’ennesima sosta per aspettare Davide che rimedia circa 10 minuti di distacco ogni mezz’ora di guida ci piazziamo sotto ad un misero alberello appena dopo un tornante, quando vediamo arrivare arrembante una Audi 100 (anni ’80) che tutta arrogante fa la curva full gas, derapa, sgomma, sgasa e….perde la ruota posteriore sinistra fermandosi in 4 metri come una balena spiaggiata. Il tutto sotto i nostri occhi e così velocemente che non abbiamo nemmeno il tempo (o forse la voglia) di fare un passo indietro.
Rimaniamo li senza sapere cosa dire e certamente senza sapere cosa fare, ed in pochi istanti c’è un tizio grassottello molto sudato che cerca di infilare il cric sotto l’auto, un vecchio con i denti tutti d’oro che ci guarda sorridente e fiero nonostante il patatrac e dice indicando la vecchia Audi “germansky, good!!” facendo ok con il pollice, io e Giacomo che camminiamo lungo la curva cercando i TRE bulloni che si sono staccati, due vecchie con i gambaletti color carne che si attaccano al telefono e Davide che si accende un’altra sigaretta. Un perfetto teatrino dell’assurdo.
Dopo pochi minuti certi che i nostri quasi investitori se la sappiano cavare egregiamente senza il fumo delle nostre sigarette intorno, ce ne andiamo.
Giacomo però sta veramente poco bene. E quando siamo quasi nel presso del bivio che verso nord porterebbe al lago decidiamo che è meglio non salire a 3000 metri in un posto molto freddo e con i soliti cessi scavati in terra a 50 metri da una yurta, ma pigliare una stanza in una guesthouse a Naryn e vedere se è un malessere passeggero o altro.
Purtroppo per lui i 100 km di asfalto che ci mancano diventano più di 140 e quasi tutti di pista (facilissima ma pur sempre più lenta) a causa dell’interruzione di un ponte che ci impedisce di cambiare lato della valle. Per nostra fortuna Davide pare aver fatto suo il concetto di “Davideeeeee!! Gaaaassss!!” e i tempi di attesa si riducono parecchio.
Ci appollaiamo il più velocemente possibile a Naryn, con Giacomo che alterna corse in bagno a stati di coma profondo a letto.
La mattina dopo sono io a svegliarmi marcio e dolorante e colpito dalla maledizione di Montezuma, e le corse verso il bagno mie e di Giacomo ricorderanno a lungo il dualismo Bolt – Gatlin sui 100 metri in questa inutile ed abbruttita giornata di stop forzato.


mercoledì 9 agosto 2017

Express delivery

La serata ad Osh la passo ad organizzare in una chat a tre con Cristiano (che sta a Milano) e Xenia (che sta accampata a 40 km da Kazarman) il trasporto di una gomma di ricambio.
Xenia e Martin stanno viaggiando per il mondo con le loro moto e la ruota posteriore di Martin dopo 22000 km è definitamente morta, Cristiano sa che stiamo andando in quella direzione e ci mette in contatto e la mattina partiamo con la ruota legata sopra ai nostri bagagli.
E con Davide (non legato sul portapacchi ma sulla sua moto), incontrato ieri dal meccanico e tra una chiacchiera e l’altra nel pomeriggio e a cena che decide di aggregarsi a noi. La sua Transalp ha pagato dazio alla putrida benzina uzbeka a 80 ottani che ha imbrattato candele e carburatori, e questo inconveniente gli è costato 3 giorni di viaggio e la possibilità di toccare le alte quote del Tajikistan.
Ci smazziamo i soliti caldi, trafficati e puzzolenti di smog chilometri da Osh a Jalal Abad e riesco a rimediare una multa di 6 dollari perché guidavo come un pazzo (86 all’ora con limite 50 su una strada grande come una autobahn tedesca). Ovviamente i 6 dollari sono finiti nelle tasche del poliziotto, senza verbale….
Nel frattempo incontriamo un gruppo di svizzeri con auto di supporto al seguito, fanno parte dell’organizzazione che ieri sera ha portato la ruota di Martin alla nostra guesthouse e visto che vengono nella nostra stessa direzione insistono nel caricarla sul pickup.
Davide non ha esattamente confidenza con lo sterrato ed è in super ansia per la pista di 90 km che culmina a 3000 metri sul passo Kaldama. Noi procediamo tranquilli fermandoci ogni tanto ad aspettarlo, e gli dice bene che rispetto a 4 e 3 anni fa quando siamo passati di qui la strada è migliorata clamorosamente. Fosse stata cosi non avremmo sudato 70 camicie a farla sotto il diluvio con i GS, e l’hanno dopo probabilmente non avrei bucato ritrovandomi con la moto sul cassone di un camion ad impazzire per tenerla stretta e non demolirla e morendo di sete per 4 ore sotto il sole cocente.
Arriviamo a Kazarman con un temporale che ci ronza sopra la testa, puntando dritti alla indimenticabile guesthouse della pazza per il pulito, la signora Baktygul Chorobaeva che in occasione della nostra prima visita ci rimbalzò dicendo che era al completo. Forse solo perché diluviava ed eravamo bagnati zuppi e coperti di fango? Il sospetto ci rimarrà forever&ever.
Ieri addirittura sapendo che saremmo dovuti venire qui ho fatto lavare la tuta in lavanderia  ad Osh! Sono un figurino (un tanto impolverato ma sul grigio non si nota) ma purtroppo il gruppone svizzero ha prenotato tutto. Mannaggia la peppa! Mentre molto gentilmente la signora chiama un’altra guesthouse che possa ospitarci, ci viene incontro….Martin! Ci riconosce lui dalle moto (probabilmente gliele ha descritte Cristiano) e rimaniamo d’accordo di incontrarci più tardi per una birra.
Birra che lui e Xenia ci porteranno per ringraziarci di esserci prestati al trasporto della gomma (maledetti noi che l’abbiamo lasciata al pickup, quelli nonostante viaggiassero scarichi e su moto leggere arriveranno molto più tardi di noi)….Xenia è un fiume in piena di parole e piano piano Davide e gli altri motociclisti italiani che sono li con noi fuggono per far riposare le orecchie!
Io invece mentre sono li con Giacomo, Martin e lei riesco solo a pensare “porca put…miseria quanto vorrei aggregarmi a loro, Cristiano, Sabrina Joshua e Sinje per attraversare la Cina e andare a fare la Karakorum Highway in compagnia di questa banda strana di inglesi, svizzeri, italiani e tedeschi che parla a raffica e che vive per viaggiare in moto.

Uffffffffffffffffffff 

lunedì 7 agosto 2017

Track back

Ho dormito con un’altra. Gatta.
Si ho fatto le corna a Pieroangela per una notte lasciando Brunilde (la chiameremo così) dormire sulla pesantissima coperta dei Minions in questa stupenda yurta dispersa nel nulla.
Dormo pochissimo, probabilmente a causa dell’altitudine che porta insonnia e probabilmente anche a causa del fatto che ogni 10 respiri inconsciamente ne faccio due profondissimi per l’aria rarefatta. Mi appisolo che ormai albeggia, ma Brunilda scova dietro ad una tendina vicina alla mia testa il pentolone del latte di yak e il suo lappare a pochi centimetri dalla mia testa mi sveglia.
Cattiva Brunilda! Cattiva! Quello è il latte che ci viene servito scaldato sulla stufa a cacca secca per colazione, e ovviamente prima io poi Giacomo approfittiamo della distrazione delle nostre ospiti per ricacciare le due tazzone fumanti nel pentolone. Non faccio una cacca degna di tale nome da 20 giorni, il latte di yak caldo leccato dal gatto potrebbe scatenare la maledizione di Lenin e costringermi a ripetuti squat sul buco.
Siamo poco oltre la metà della pista che ci deve riportare a Murghab, e io ho poca voglia di scassarmi l’anima come ieri. Per fortuna per una volta va di lusso, e a parte i primi 20 chilometri di canali secchi di terra (il peggio del peggio, secondo me) poi la pista si spiana meravigliosamente e diventa una specie di biliardo.
Menzione speciale per i pochi chilometri sul fondo di un piccolo lago secco che ci ricorda tremendamente il lago Iriki nel sud del Marocco.
Ci appollaiamo svogliatamente a Murghab dopo nemmeno 150 km di strada, ingannando il pomeriggio con la solita manutenzione spicciola a filtri e catene. Giacomo si accorge di una piccola crepa nel metallo del supporto della pedana destra, certamente conseguenza della caduta di ieri e decidiamo di ripararla ad Osh per evitare che guidando in piedi questa possa allargarsi.
Decisamente più intensa è invece la nostra domenica, che ripercorrendo a ritroso la strada fatta giorni fa (ho perso il conto e questo è bellissimo!) ci riporta a Osh fatturando 450 km, due passi da oltre 4000 metri, qualche decina di chilometri di tole ondulè fatti a tutta manetta (dio che goduria!!!), due frontiere e un male al culo pazzesco!
Ci fermiamo qui un giorno, Giacomo al momento è da Patrick “Muztoo” a far saldare la pedana e riparare il tubo del radiatore che piscia acqua, io scrivo sotto al portico della amata TES Guesthouse in mezzo a viaggiatori in bici, tre equipaggi del Mongol Rally, una coppia di signori anziani con un Land Rover Defender attrezzato per fare il giro dell’universo, e un cinese scassaminchia che mangia semini di girasole che sputa elegantemente nel prato.

Da domani parte la perlustrazione del Kirgizstan, sempre rigorosamente senza una pianificazione che vada oltre le prossime 36 ore

domenica 6 agosto 2017

Check Point Char....no, Kargush

Sto vivendo un momento di pure felicità. Io, Giacomo, un altopiano verdissimo a 4350 metri racchiuso tra tra montagne ancora innevate, le moto parcheggiate fuori da una yurta.
Sto vivendo un momento di pura felicità, lo ripeto. È giusto ripeterlo quando si ha la fortuna di sentirsi cosi puramente in pace e soddisfatto e pieno di gioia come mi sto sentendo io ora.
 Secondo l’adagio che non tutto il male viene per nuocere, lo stop della Bartang ci ha portato a ri-elaborare i piani e decidere di passare nell’area protetta del lago Zorkul, che collega il check point militare di Khargush e la Pamir Highway a Murghab.
Mentre la Wakhan è (con le dovute proporzioni) piena di turisti e molto battuta, appena i militari verificano il permesso speciale che serve per accedere alla zona della riserva protetta si percepisce immediatamente che si sta entrando in una zona completamente disabitata.
Dal bellissimo blog di Sporcoendurista e dalle info ricevute stamattina da Nigel, il ciclista australiano incontrato qualche giorno fa e che troviamo nuovamente, sappiamo che almeno i primi 50 chilometri di pista sono tosti: tratti di sabbia, tratti di sasso smosso, guadi.
La pista corre immediatamente accanto all’alto corso del fiume Pamir (che nasce in Afghanistan qualche decina di chilometri più su), e dopo giorni di fiumi color cioccolato il blu accecante delle acque in contrasto con la terra e la roccia è uno spettacolo incantevole. Che talvolta ci distrae da una strada che subito comprendiamo non tollera distrazioni…
Sotto le ruote ci ritroviamo all’improvviso buche di sabbia che ci fanno scattare in piedi sulle pedane, e quando la sabbia comincia  diventare via via più rada ecco che arrivano pietraie terribili spesso in salita che culminano con delle vere e proprie trincee o con dei guadi profondi.
Ci sudiamo la pagnotta guidando sulle uova per non fare danni alle moto (e si, anche a noi stessi), ma tutta questa attività alzati\siediti\scatta\evita il masso a 4000 metri è bella tosta. Ogni volta che ci fermiamo per riprendere fiato e possiamo veramente guardarci intorno rimaniamo a bocca aperta per gli spazi immensie deserti, la cui bellezza culmina quando scolliniamo e vediamo per la prima volta il lago.
C’è una luce pazzesca, l’acqua è color cobalto e contrasta con il blu del cielo. Senza parole.
Convinti che il peggio della strada sia passato giochiamo a fare foto, cazzeggiamo un po’, ma poi….nonostante sul GPS la traccia della strada sia sempre chiara e so che stiamo andando nella direzione giusta, trovare la strada da seguire diventa improvvisamente complicato perché c’è una moltitudine di solchi che si potrebbero seguire ma alcuni sono delle trappole sassose o conducono sul bordo di un ruscello le cui sponde non permettono l’attraversamento.
Un paio di volte scendo e vado a piedi per cercare di capire dove è meglio passare, altre mi pianto scegliendo il punto sbagliato in cui guadare finendo in una pozza di terra molle che richiede le spinte del buon Pastelero per uscirne.
Pastelero che, ad un certo punto nel mezzo del nulla più completo mi scompare dagli specchietti. Mi fermo. Aspetto qualche minuto, non arriva.
Torno indietro (mannaggia che mi serve ogni goccia di benzina per riuscire ad arrivare a Murghab dove troverò il primo rifornimento) e per fortuna dopo meno di due km scorgo in lontananza il suo faro.
E’ caduto, un guado, una pietra presa male, la moto che sbatte sulla destra. Giacomino sta bene, solo il classico mal di schiena da “ammazza quanto pesa da tirare su ‘sta moto”.
Mentre mi racconta cosa è successo noto uno zampillo di acqua dal tubo del circuito di raffreddamento, per fortuna una sciocchezza che ripariamo velocemente e pare tenere.
Nuovamente la strada scompare sull’altopiano, e solo aiutandoci con il gps e scrutando come marinai alla ricerca della terra promessa i di segni di altri pneumatici riusciamo a mantenere la direzione che speriamo ci porti presto ad un campo di yurte del quale ci ha informato Nigel per trascorrervi la notte.
Un altro paio di guadi molli nei quali mi pianto come un pirla, e finalmente scorgiamo in lontananza le tende.
Ci accasiamo in una di queste con le donne di casa che ci accolgono con calore, per fortuna smozzicando un po’ di inglese. Il calore della tenda, il sorriso delle persone, la cena che ci stanno preparando sulla stufetta alimentata a cacca secca di gnu o di crotalo non so, il sole che sta tramontando e che allunga le ombre a dismisura, la purezza dell’aria fredda, i bambini bellissimi con il moccio al naso, la capra bluetooth (che se ti avvicini a meno di 5 metri poi ti segue con un drone), un piccolo lago blu in lontananza.
Sono felice, è tutto perfetto. E chi se ne frega se sarà solo per un momento o qualche ora.


Bartang

Questo viaggio non ha mai avuto un nome, un titolo. Ma se ne avesse mai avuto uno sarebbe stato: Bartang. Si perché io e Giacomino abbiamo iniziato a parlare di tornare ancora una volta quaggiù prima di tutto per tentare di percorrere tutta questa vallata lunghissima (280 km), selvaggia ed inospitale.
Per di più difficilmente percorribile, da quanto abbiamo letto sui vari forum di motoviaggiatori, con moto pesanti come la mia (ma anche quella di Giacomo non scherza pur essendo un monocilindrico).
Le informazioni raccolte su internet in questo ultimo mese non ci hanno mai lasciato grosse speranze di poterla percorrere tutta. I problemi sono fondamentalmente tre: il primo, quello forse minore, l’autonomia di benzina che pare non essere disponibile lungo tutto il percorso, il secondo le frane sul tratto che dall’ultimo paese in fondo alla valle (Gudara, 158 km dall’inizio) in certi punti lasciano pochissimo spazio per passare….e al di là di quello spazio si vince un volo verso il basso.
Il terzo infine è dovuto al fiume Bartang che è costretto tra pareti di roccia molto strette, e che in questo caldissimo agosto sta tirando giù i metri e metri di neve caduti nell’inverno più nevoso degli ultimi 70 anni andando a sommergere la strada che in molti punti scorre molto in basso rispetto alle acque.
Con tutte queste premesse, la strategia di massima prevedeva di avere sufficiente autonomia per arrivare almeno fino a Gudara e poter tornare indietro, poco più di 300 km quindi. La mia moto sbevazza molto di più del Tenere di Giacomo e anche a parità di capienza lui può viaggiare sereno, io bisogna che faccia sempre un po’ di conti.
Partiamo alla volta di Rushan, che sta giusto all’imbocco della valle e dove facciamo un rifornimento mettendo ogni goccia possibile di benzina nel serbatoio, e ci infiliamo tra le strette pareti della Bartang dosando amorevolmente il gas per aumentare l’autonomia.
Il fiume si mostra immediamente in tutto il suo color caffelatte e la sua forza, schiumando e saltando sulle rocce, o allargandosi mangiando quasi tutti gli spazi che gli sono concessi. Chilometro dopo chilometro notiamo che la strada è in condizioni nettamente migliori rispetto alla Wakhan, ovviamente perché la Bartang per le sue difficoltà e per quanto è poco abitata ha un via vai di mezzi molto inferiore.
Non passa molto che incontriamo una coppia di ciclisti polacchi che smonta sul nascere le nostre speranze: chilometri più avanti l’acqua sulla strada è alta circa un metro e anche i mezzi dei locali sono fermi in attesa che scenda. Decidiamo comunque, visto che siamo qui e siamo ficcanaso, di andare avanti finchè si può.
Il posto è pazzesco! Altro che Wakhan! La pista sale e scende sul fiume, talvolta passiamo in punti in cui si vede che le acque si sono allargate ancora di più di quanto non lo siano ora, passiamo in pezzi dove la carreggiata è larga non più di due metri e a strapiombo ed altri dove l’acqua corre accanto a noi e basterebbero due dita in più per farla esondare.
Attraversando un ponte inquietante di legno e sottili lastre di metallo cambiamo sponda e all’uscita del villaggio la strada è stata mangiata via, si passa poco più sopra, buche pozze e ruscelli scorrono ovunque, sassi smossi nel greto e via. Al villaggio immediatamente successivo scrocco tre litri di preziosa benzina che un tipo dalla faccia simpatica succhia dal serbatoio di un camion che ha vissuto giorni migliori….per ringraziarmi di avergli fatto bere un sorso di carburante ci invita a casa sua per un chai accompagnato da susine dolcissime che raccoglie arrampicandosi su un albero.
Pure lui ed i suoi amici ci confermano che la strada è assolutamente bloccata. Salutiamo e andiamo avanti, è troppo bello e vogliamo arrivare fino dove possiamo. A qualche centinaio di metri da qui in effetti la valle si stringe ancora di più e cominciamo a trovare pezzi di strada allagati. I primi due prima li percorriamo a piedi per tentare di capire direzione da prendere e consistenza del fondo (l’acqua è sempre caffelatte, non si capisce nulla di cosa sta sotto e si capisce male dove la strada sottostante diventa fiume vero e proprio), poi ci “lanciamo” a due all’ora con le moto.
Al terzo, 5 chilometri dopo il villaggio, nonostante non sia il punto famoso con il metro d’acqua decidiamo prudentemente di abdicare. Saranno 300 metri di pista sommersa, anzi sono due le piste sommerse…quella originaria e la deviazioni che evidentemente serve in caso di acqua alta ma non alta come oggi.
Probabilmente anche questo potremmo passarlo, ma dopo un breve consulto decidiamo che rischiare qui per poi bloccarci certamente più avanti non ha senso. Abbiamo ancora davanti 15 giorni abbondanti per divertirci, e non vogliamo comprometterli solo perché siamo gasati.
Invertiamo la rotta, e liberi da razionamenti ed economie di carburante ci lasciamo un po’ andare alzando il ritmo e la quantità di schizzi nei guadi e nelle pozze. Rallentiamo solo quando incontriamo gli abitanti della valle che, come avevo avuto modo di leggere e sapere, si rivelano di un calore ed una simpatia commoventi.
Torniamo Khorog, stanchi morti ma comunque soddisfatti di averci provato. Già facendo programmi per un futuro viaggio con il solo scopo di sconfiggere anche la Bartang.
E mentre ingurgitiamo hamburger e pancakes al cioccolato rielaboriamo il nostro percorso decidendo di rifare all’indietro anche la Wakhan e chiedere il permesso per la riserva naturale del lago Zorkul.

Adoro viaggiare con Giacomino, primo perché è un pirla e su questo ci siamo trovati. Secondo perché tra noi ogni scelta o rinuncia è sempre facile e condivisa in meno di trenta secondi

martedì 1 agosto 2017

Manutenzioni varie

Il padrone della guesthouse pare preoccupato dal fatto che abbia mangiato meno della metà del pappone di ieri sera, e praticamente zero dei noodles in brodo serviti per colazione. Per essere gentile lamento un forte mal di stomaco, quando in realtà nemmeno sotto tortura avrei finito quei piatti.
Il mio finto mal di stomaco fa scopa con il suo vero mal di denti, del quale si lamenta continuamente. Mi chiede un paio di volte se posso caricarlo sulla moto fino a Vrang (a una trentina di chilometri) ma pur sentendomi in colpa non me la sento di rischiare di far salire uno che certamente non è mai salito su una moto, per di più carica di bagagli, e di dover guidare su strade scassate con lui vestito in pantaloni e maglietta. Mi dispiace signò…spero tu possa trovare un passaggio dalle molte jeep che passano da Langar.
Chiediamo benzina ad ogni uomo che incontriamo perché il benzinaio di Langar è a secco (solo diesel) e ad Iskashim non arriverò mai con la poca autonomia residua dalla tappa di ieri da Murghab. Proprio a Vrang, una cinquantina di chilometri dopo, tre secchiate di nettare idrocarburico mi toglieranno almeno quel pensiero.
La valle qui è larghissima, il fiume scorre ampio e placido quasi senza far rumore, il colore dell’acqua e marrone di sedimenti e sabbia che nelle anse formano piccole spiagge, e a volte dune vere e proprie. I villaggi si succedono uno dietro l’altro, e la benedizione della enorme quantità d’acqua che bagna questa valle si traduce in mille oasi di verde, campi di frumento, risaie, viali lunghissimi di betulle. Ogni paesino è un’oasi, e finito uno si intravede già la macchia verde del successivo.
Le anse del fiume alternano i villaggi tajiki e afghani, non se ne trovano mai uno di fronte all’altro perché le montagne precipitano nelle acque, e solo le anse offrono spazio per gli insediamenti. Ovunque bambini che ci inseguono urlando “heeeelllooooo” agitando quelle manine lerce, ovunque uomini che falciano l’erba a mano e donne che trasportano covoni di fieno. A differenza dell’altopiano del Pamir, cosi scarno e misero, qui certamente c’è povertà ma la ricchezza della terra trasforma la sussistenza in qualcosa di più.
La strada non ci permette mai di rilassarci. 10 km di asfalto buono si trasformano in un attimo in chilometri di tole ondulè, crateri spacca-moto, lunghe strisce di sabbia. Una di queste pozze di sabbia intrappola una decrepita Lada Niva che diversi uomini stanno tentando di disincagliare, e presto ci troviamo a spingere quell’ammasso di ruggine insieme a questi uomini sorridenti e pieni di gratitudine a missione compiuta.
La cosa che adoro di questa gente, in generale dei musulmani che vivono la loro religione in modo molto easy, è che quando ti salutano si portano una mano sul cuore. Sarà una banalità, ma è un gesto che fa parte della loro cultura che mi colpisce ogni giorno, ogni volta.
Giacomo ha un maledetto mal di testa, probabilmente perché ogni mattina si lamenta che non ha dormito, così riduciamo le soste allo stretto indispensabile. Io però non riesco a smettere di fare foto anche se tutte le volte vuol dire fermarsi, togliersi i guanti, togliere la macchina fotografica dal borsello impermeabile, scattare e rifare tutto al contrario. Ma il fiume che ora è stretto tra gole larghe poche decine di metri è uno spettacolo impressionante di acque furiose e ruggenti, e io ne sono tremendamente affascinato.
Poco prima di Khorog incontriamo due curiosi personaggi: papà e figlio (10 anni forse) sud coreani che stanno viaggiando da due mesi in sella ad una Africa Twin (quella nuova, non la mia vecchietta) carica come  non ho mai visto carica una moto. Il papà è uno spilungone alto con un gran parlantina, il bimbo ci scruta con due occhioni neri enormi ed il tipico caschetto di capelli dritti degli orientali. Si sono fermati per un bagno in una  pozza del fiume, e viaggeranno ancora fino ad ottobre, fino a Valencia. Avrei voluto essere quel bimbo, alla sua età…
Infine, ci appollaiamo a Khorog nella guest house suggeritaci da Nigel, un australiano di  60 anni incontrato questa mattina che viaggi in bici da 6 anni (SEI !!) e che tra mille “bloody hell” e “fuck” e “fuckers” ci indirizza qui, sulla terrazza appesa sul fiume Gunt dalla quale scrivo.
Khorog è vivace, non bella secondo i nostri standard europei, ma ha tutto quello che ci serve. Cibo buono, BIRRA GHIACCIATA, un bazar per comprare fascette, e l’internet per chiamare casa. E persone gentili e sorridenti.

Un giorno senza moto per fare un po’ di manutenzione a loro e a noi, per essere pronti ad affrontare la Bartang Valley domani. Un giorno con un cesso con una tazza invece di un buco puzzolente in terra e una doccia al posto di un torrente

lunedì 31 luglio 2017

Finalmente Wakhan

La signorina dell’hotel di Murghab ci ha fatto una mossa Kansas City spiegandoci l’orario del Tajikistan, e quindi non so se sto fissando il soffitto alle 5 di mattina o alle 6. Fuori c’è già luce che filtra dalla finestra lasciata aperta perché saremo anche a 3800 metri ma fa caldo come alla fiera della sarabiga di Fabbrico (questa è per te Fabri !!) il 15 di agosto.
A colazione schivo l’ennesimo piatto di uova che potrebbero ricordare alla mia intolleranza di scatenare su di me la maledizione di Montezuma (la colite insomma) ingurgitando a fatica due pezzetti pane burro e marmellata e qualche sorso di caffè annacquato.
Oggi abbiamo la seria intenzione di sfatare una chimera dei nostri precedenti viaggi in queste terre, ovvero mettere le ruote nella Wakhan Valley, una sottile striscia di terra incastrata tra l’Afghanistan e il Tajikistan nella quale le catene montuose del Pamir e dell’Hindukush si incontrano. Scelte troppo prudenti e sfighe assortite fino ad ora ci hanno tenuto lontani dalla Wakhan, e ora chilometro dopo chilometro ci avviciniamo alla deviazione che dalla M41, ovverosia la Pamir Highway, punta dritto verso sud.
Ci fermiamo ad Alichur per un chai, mancano 23 chilometri e anche se non ce lo diciamo apertamente, pare che stiamo gustandoci ogni momento prima di imboccare la pista…
Mi sussurro un “dai!” nel casco mentre abbandoniamo l’asfalto. La strada è sterrata ma assolutamente non difficile, guidiamo lentamente guardandoci intorno salendo verso i 4350 metri del Kargush Pass tra roccia e qualche buca di sabbia. Dietro una curva trovo una jeep con una moto sul tetto legata ad un portapacchi, il guidatore intento a rimettere a posto il paraurti spaccato e una ragazza bionda che scende al volo dall’auto e mi viene incontro di corsa
“Do you speak english?” mi chiede, e attacca a spiegarmi che la sua moto si è rotta, che il suo ragazzo è rimasto indietro e che forse anche lui ha dei problemi, che questi uomini tajiki la scaricheranno al prossimo paese (la Alichur del nostro ultimo tè), e mi chiede di informare il suo ragazzo di tutto questo. Le chiedo se lei sta bene, se è tutto ok, e mi risponde “yeah, yeah, i’m ok…” salvo poi girarsi di me con gli occhi pieni di lacrime. Ci abbracciamo velocemente e le dico che andrà tutto bene, che poi saranno queste le cose che racconterà con più piacere di questo viaggio. Sembra credermi asciugandosi le lacrime, come se sapesse che io e Giacomo siamo piuttosto esperti in materia….
Nei chilometri successivi guido con l’unico pensiero di trovare il ragazzo con la Honda XL rossa, e quando finalmente lo incontriamo gli spieghiamo tutto. Tutto ok, tra un paio d’ore si ritroveranno e potranno pensare a come sistemare la moto di lei.
Passiamo il check point militare ai piedi del Kargush Pass e costeggiando il fiume Pamir scendiamo tra gole e roccia, montagne spoglie e assolutamente brulle. In lontananza appaiono e scompaiono cime a forma di piramide perfetta, altissime e coperte di ghiacciai. Siamo oltre 4000 metri, quelle saranno più di 7000….
Il paesaggio è schiacciante, talmente imponente e maestoso e selvaggio da impedirmi di guidare decentemente. Un po’ contribuisce la mia solita paura (terrore, meglio) del vuoto, un po’ pietre e sabbia pronte a togliermi il manubrio di mano appena mi deconcentro un momento. Non è stato certo il giorno in cui mi sia divertito di più a guidare, ma di certo è stato uno di quelli che racconterò ai (vostri) nipoti. E a Piero.
Dopo aver perso un’ora buona appresso ad un gruppo di motociclisti svizzeri con tanto di jeep d’appoggio ma una moto in panne (questi stavano in 15, equipaggiati di mille diavolerie tra le quali una livella da muratore, e non avevano i cavi per la batteria….mah!), ed averli abbandonati riprendendoci i cavi perché persino noi abbiamo capito che a quella moto non arrivava la benzina, ci rimettiamo in strada per gli ultimi 45 chilometri.
Che tra gole pazzesche, torrenti gonfi d’acqua che mal ci lasciano sperare per la Bartang Valley che dovremo fare tra qualche giorno, e altri milioni di pietre ci portano alla balconata che improvvisamente si spalanca sulla Wakhan, sul fiume Panji che qui incontra il fiume Pamir, sull’Afghanistan e sull’oasi incredibilmente verde di Langar, nostra meta per oggi.
Dopo una 10 minuti di panico per un rumore tipo cavi elettrici che friggono che proviene dalla mia moto, tiriamo un sospiro di sollievo constatando che sono andati a farsi benedire i faretti a led cinesi da 16€. Poco male, sorrisi, pacche sulle spalle….
Stasera si dorme nella guest house di un signore simpatico che  non la smette di offrirci albicocche. La doccia nuovamente è acqua di torrente ghiacciata, la cena una sbobba molliccia di macaroni, carote, qualche patata ed erba cipollina come se non ci fosse un domani, pane di giugno e chai per mandare giù tutto.

Se non funziona, poi provo con il WD40.

Benvenuti a Frittole

I 30 chilometri che dalla guesthouse di Matiev ci separano dalla frontiera kirgiza fanno di tutto per farti centrare ogni buca (cratere) presente sull’asfalto. A sinistra ghiacciai, e dietro di essi la Cina, a destra la mole imponente del picco Lenin che è distante quasi 100 chilometri ma sembra di poterlo toccare.
Pratiche doganali kirgize veloci, il solito guado color cioccolato mai brutto come quattro anni fa, le foto di rito con la statua del caprone cornuto sul passo Kyzyl Art che precede di poche centinaia di metri la frontiera tajika. Passiamo da un casotto di lamiera all’altro, da un container pieno di mosche al cassone di un camion adibito ad alloggio, da un soldato ad un altro, da una tassa ed un obolo all’altro: soldi per la disinfestazione delle moto (acqua e sapone probabilmente, spruzzati svogliatamente sulle ruote), soldi per l’uso della strada, tassa per l’accesso alla regione del Gorno Badakshan (il Pamir insomma)….insomma avete presente? CHI SIETE? COSA VOLETE? DOVE ANDATE? UN FIORINO !!
Ce la prendiamo con una calma infinita ri-familiarizzando con il paesaggio lunare, e quando mi fermo dopo un piccolo guado per fare un video a Giacomo questo arriva dopo 5 minuti buoni, guada senza arroganza e si ferma per mostrarmi il suo parabrezza al quale sono saltate per aria 4 viti in un colpo solo (grazie al tole ondulè di qualche chilometro prima). Pezzottiamo malamente con le mie tristissime fascette comprate dai cinesi sotto casa (se ne spaccano 8 su 10) e abbondante nastro americano arancione. Fatto a cazzo ovviamente, ma robusto quanto basta per affrontare i 10 km di tole ondulè brutto che precedono il passo dell’Ak Baital.
Seratona a Murghab, una delle cittadine più povere e malconce che mi sia mai capitato di incontrare nei miei viaggi, dove la corrente elettrica è razionata a zone alternate (noi siamo nella zona 19-22), e anche quando te la danno i cali di tensione fanno accendere e spegnere le lampadine. Passeggiamo nel bazar (una lunga fila di container sgarrupati in mezzo ad un piazzale polveroso) e ceniamo con mati (delle specie di pelmeni, ravioloni di carne e verdure al vapore) alle 18 nell’unico ristorantino del paese, e prima delle 22 siamo in branda.

Livin’ la vida loca.

venerdì 28 luglio 2017

Non fare oggi quello che puoi fare domani

L’idea sarebbe di partire molto presto (sveglia alle 6.30) per arrivare ad Osh con un caldo un po’ meno che sfiancante. In realtà tra “Giacomino offreddoooo” e “ancora 5 minuti” e “mò questo dorme di nuovo” si fanno le 8.00.
Le pratiche per la ripartenza sono però più veloci del solito perché saltiamo la colazione (che faremo con due wafer di numero lungo la strada), perché Giacomino non se la sente di affrontare il cesso puzzolentissimo e quindi si risparmia tempo (io non oserei mai infilarmi la tuta e gli stivali senza aver fatto almeno una cacca in apnea), e tipo alle 9.30 siamo già on the road.
Nei viaggi precedenti da queste parti la combo caldo e traffico di Jalal-Abad e Osh (nostra meta) è sempre stata la spada di Damocle da affrontare obbligatoriamente perché dove vai vai in Kirgizstan devi passare da qui. La combo risulta ovviamente all’altezza delle aspettative, e quando arriviamo a destinazione siamo lessati dal caldo e dallo smog. La mia Honda per la prima volta da quando la possiedo mi dimostra che la ventola del radiatore funziona…pure lei ha patito questo caldazzo.
Ci rifugiamo belli belli alla TES Guesthouse a farci coccolare dall’aria condizionata, da un cesso vero e da una doccia senza salmoni che risalgono la corrente. Fatte le abluzioni a noi e a qualche vestito ci precipitiamo al bazaar a cercare un paio di ciabatte per Giacomino che da ieri è sofferente, e ne troviamo un bel paio stile nonno, rigorosamente made in Kirgizstan.
Scacciafighe insomma.
Il bazaar non è nulla di esotico, è un ammasso di container e bottegucce strette le une alle altre sotto le quali la cappa di caldo è anche più soffocante che all’aperto. Non siamo solo noi a soffrirne…nei 20 minuti di passeggiata abbiamo costeggiato il fiume pieno di gente in ammollo nelle acque perlomeno discutibili, e una enorme piscina ricavata da un gigantesco vascone di cemento e ferro arrugginito nella quale viene pompata l’acqua dello stesso fiume. Da noi manco le nutrie probabilmente ci farebbero il bagno.
Anyway….usciamo tardi per cenare, andiamo a letto tardi, ci svegliamo tardi e partiamo tardi stamattina, in pieno rispetto dei nostri piani di una vacanza si avventurosa ma anche leeeeentttaaaaaaa. Abbiamo tempo, perché sbatterci come in tutti gli altri viaggi fatti fino ad oggi?
Cazzeggiamo a 80-90 all’ora su per la strada che da Osh porta a Sary Tash, 180 km ben asfaltati che sono il prologo al Pamir. Il Taldyk Pass a 3560 metri è la porta di Sary Tash, sulla quale si spalanca la vista sui contrafforti delle montagne tajike.
Mentre controllo l’olio lungo la strada e facciamo rifornimento si ferma Matiev, un ragazzo di 22 anni di qui che ha una guest house e parla un buon inglese. Ci appollaiamo a casa sua che non sono neanche le 15, facciamo merenda, e poi semplicemente ce ne stiamo fuori a goderci il sole e l’aria piacevolmente fresca, a scattare foto alle montagne da 6/7000 metri che stanno di fronte a noi, a videochiamare gli amici e le famiglie a casa.

Domani entriamo in Tajikistan. Ma senza fretta.

giovedì 27 luglio 2017

Il viaggiatore scalzo

Ho fatto un rapido calcolo mentale della geografia di questa parte del mondo, e se non mi sbaglio le ciabatte di Giacomo tra qualche mese potrebbero impaludarsi in quel che resta del lago d’Aral
.
Ma andiamo con ordine….

Ripartiamo malvolentieri che già si suda brutto prima delle 10, costeggiando il lago Toktogul per diverse decine di chilometri. La strada è magnifica (la strada, non il solito asfalto ondulato) e ci regala scorci pazzeschi di acqua blu con sfondo di montagne aride giallo\marrone.
Che fa caldo l’ho detto? Si…e me lo sentirete dire ancora molte volte perché veramente non si respira nonostante non scendiamo mai sotto i 1000 metri di quota. Oggi ci siamo posti come obbiettivo la riserva naturale con il lago Sary Chelek che ci è stato caldamente consigliato da uno dei proprietari dell’hotel di Bishkek, un lago che my friend is like to be in The King of the Rings….Lord….Lord of the rings.
Tutti carichi di aspettative insistiamo sotto il sole per 250km fino ad arrivare all’ingresso del parco (che doveva essere dalle informazioni di Emil intorno ai 2000 metri ma qua stiamo ancora a 1100 e stiamo a schiattà). Gli ultimi 20 km sono tutti sterrati (evviva la moto adesso è sporca!) facendo zig zag tra pullmini e auto di turisti local diretti al lago.
Che, per dirla tutta, è una mezza cagata. Si cioè, bello eh…ma non c’è una mezza spiaggetta sulla quale spogliarsi di tutti i vestiti da moto per fare uno sguazzetto nelle acque fredde. In un solo punto circondato da spoglia terra battuta una cinquantina di persone schiamazzano scalando e scendendo una ripida sponda per rinfrescarsi.
5 minuti di orologio e ce ne andiamo un po’ stizziti per quello che doveva essere un posto della madonna e invece no.
Ma vi dicevo delle ciabatte di Giacomo. Scendendo dal lago decidiamo di trascorrere la notte in  una guesthouse nella quale prendiamo una yurta. Serve una doccia subito, siamo sudati e impolverati da far schifo, e come doccia ci indicano il torrente. Vabbè, daje…bagnetto e bucato.
Mentre si chiacchierava seduti su due sassi, con le palle al fresco a favore di corrente ecco che d’improvviso…un sussulto! E la povera ciabatta Decathlon che fluttua leggiadra tra la spuma, diretta a valle verso il fiume Naryn.
Diretta verso il Syr Daria.
Diretta verso l’Amu Daria
E infine, insciallah, al lago d’Aral

Dissolvenza....
SIPARIO

Falsa partenza

Stavo riflettendo sulla cabala dei viaggi, e mi sono accorto che nel primo viaggio in Pamir abbiamo avuto problemi al ritorno (il cardano di giacomo), nel secondo il giorno della partenza (la moto a noleggio di stefano), nel terzo a caponord al ritorno (il cardano di giacomo e no, non è un errore di ripetizione), in questo quarto viaggio la mia moto ha deciso di non partire nel giorno in cui siamo arrivati a Bishkek. Batteria a terra, senza acqua probabilmente per una mia negligenza pre-partenza. Sarà un segno? PAURA EH?!
C’è comunque un che di confortante nell’essere fermi in una capitale vivace, con persone che ti aiutano, e alla vigilia di un viaggio che per una volta ha un roadbook che ci lascia ampio margine. O meglio….non abbiamo un programma ma 4 settimane di tempo, e questo è una novità lussuosa per noi.
Quando finalmente la mia batteria è stata ricaricata, tempo un’ora persino le mie inette mani da meccanico riescono a rimontare tutto e caricare i bagagli. Lo so che tra quelli che leggono ci sono molti che erano pronti a sfottermi nel caso avessi fritto tutto l’impianto elettrico montandolo a cazzo J
La prima meta è il lago di Toktogul, che dista 280 km. I primi 100 ce li ricordiamo bene (passammo di qui nel 2013 diretti in Kazakhistan) e sono una giungla di traffico, smog che brucia occhi e polmoni, caldo soffocante, slalom tra le macchine che si spostano come se fosse Outrun sul Commodore 64. A Kara Balta finalmente la strada piega verso sud abbandonando la direttrice Bishkek-Taraz, la strada comincia a salire e tempo qualche decina di chilometri iniziamo quantomeno a respirare.
Continuo a tenere un occhio incollato al voltimetro che misura la carica della batteria in preda ad attacchi multipli di seghe mentali, ma poi decido che è molto meglio tenere d’occhio l’ampia striscia di asfalto che sale fino ai 3200 metri del passo Nonmiricordo. Ci sono da evitare camion contro mano, auto contro mano, improvvisi pezzi sterrati, pecore contro mano, tratti di asfalto talmente tanto sminchiato dal passaggio dei camion che sembra abbiano appositamente asfaltato su sconnessioni a forma di onda del mare.
Le moto, ovviamente, si fanno meno problemi di noi nonostante l’altitudine (altro cruccio che avevo, essendo la mia moto a carburatori). Scesi dal passo troviamo giusto il tempo per fare i deficienti cantando Manamanà duddududududu davanti alla statua di Manas, lasciare che 3 bulletti palestrati si facciano un reportage fotografico sulla mia moto, e risalire a 3150 metri su un secondo passo Chenonmiricordo (e studiatevi le cartine geografiche c....ribbio!!) avendo il culo di evitare un temporale brutto. Ma brutto-brutto-brutto eh!
Siamo già nella modalità viaggio asiatico, cioè colazione scarsa, pranzo niente, merendina con chai e pezzo di pane (con la marmellata se va bene), e per cena segno della croce sperando che sia abbastanza corposa da compensare il resto. La verità è che siamo abituati, almeno io, a mangiare come un cinghiale selvatico quando sono a casa e qui i primi giorni guardo le persone come se fossero porchette. Tutta questione di abituarsi…
Toktogul (la città non il lago) si trova a qualche chilometro da Toktogul (il lago, non la città). Smadonniamo un po’ per trovare una guesthouse, e alla fine ci piazziamo in una in cui i ragazzi che la gestiscono appaiono quantomeno confusi sul da farsi. Si uniscono a noi due ragazze svizzere che stanno terminando il loro viaggio di un mese in Kirghizstan: Piera che ci procura le birre (nonostante le abbia detto che il mio gatto si chiama come lei) e Anais che ha il colorito di uno che è appena sceso dall’ottovolante e non si è trovato benissimo.