lunedì 31 luglio 2017

Finalmente Wakhan

La signorina dell’hotel di Murghab ci ha fatto una mossa Kansas City spiegandoci l’orario del Tajikistan, e quindi non so se sto fissando il soffitto alle 5 di mattina o alle 6. Fuori c’è già luce che filtra dalla finestra lasciata aperta perché saremo anche a 3800 metri ma fa caldo come alla fiera della sarabiga di Fabbrico (questa è per te Fabri !!) il 15 di agosto.
A colazione schivo l’ennesimo piatto di uova che potrebbero ricordare alla mia intolleranza di scatenare su di me la maledizione di Montezuma (la colite insomma) ingurgitando a fatica due pezzetti pane burro e marmellata e qualche sorso di caffè annacquato.
Oggi abbiamo la seria intenzione di sfatare una chimera dei nostri precedenti viaggi in queste terre, ovvero mettere le ruote nella Wakhan Valley, una sottile striscia di terra incastrata tra l’Afghanistan e il Tajikistan nella quale le catene montuose del Pamir e dell’Hindukush si incontrano. Scelte troppo prudenti e sfighe assortite fino ad ora ci hanno tenuto lontani dalla Wakhan, e ora chilometro dopo chilometro ci avviciniamo alla deviazione che dalla M41, ovverosia la Pamir Highway, punta dritto verso sud.
Ci fermiamo ad Alichur per un chai, mancano 23 chilometri e anche se non ce lo diciamo apertamente, pare che stiamo gustandoci ogni momento prima di imboccare la pista…
Mi sussurro un “dai!” nel casco mentre abbandoniamo l’asfalto. La strada è sterrata ma assolutamente non difficile, guidiamo lentamente guardandoci intorno salendo verso i 4350 metri del Kargush Pass tra roccia e qualche buca di sabbia. Dietro una curva trovo una jeep con una moto sul tetto legata ad un portapacchi, il guidatore intento a rimettere a posto il paraurti spaccato e una ragazza bionda che scende al volo dall’auto e mi viene incontro di corsa
“Do you speak english?” mi chiede, e attacca a spiegarmi che la sua moto si è rotta, che il suo ragazzo è rimasto indietro e che forse anche lui ha dei problemi, che questi uomini tajiki la scaricheranno al prossimo paese (la Alichur del nostro ultimo tè), e mi chiede di informare il suo ragazzo di tutto questo. Le chiedo se lei sta bene, se è tutto ok, e mi risponde “yeah, yeah, i’m ok…” salvo poi girarsi di me con gli occhi pieni di lacrime. Ci abbracciamo velocemente e le dico che andrà tutto bene, che poi saranno queste le cose che racconterà con più piacere di questo viaggio. Sembra credermi asciugandosi le lacrime, come se sapesse che io e Giacomo siamo piuttosto esperti in materia….
Nei chilometri successivi guido con l’unico pensiero di trovare il ragazzo con la Honda XL rossa, e quando finalmente lo incontriamo gli spieghiamo tutto. Tutto ok, tra un paio d’ore si ritroveranno e potranno pensare a come sistemare la moto di lei.
Passiamo il check point militare ai piedi del Kargush Pass e costeggiando il fiume Pamir scendiamo tra gole e roccia, montagne spoglie e assolutamente brulle. In lontananza appaiono e scompaiono cime a forma di piramide perfetta, altissime e coperte di ghiacciai. Siamo oltre 4000 metri, quelle saranno più di 7000….
Il paesaggio è schiacciante, talmente imponente e maestoso e selvaggio da impedirmi di guidare decentemente. Un po’ contribuisce la mia solita paura (terrore, meglio) del vuoto, un po’ pietre e sabbia pronte a togliermi il manubrio di mano appena mi deconcentro un momento. Non è stato certo il giorno in cui mi sia divertito di più a guidare, ma di certo è stato uno di quelli che racconterò ai (vostri) nipoti. E a Piero.
Dopo aver perso un’ora buona appresso ad un gruppo di motociclisti svizzeri con tanto di jeep d’appoggio ma una moto in panne (questi stavano in 15, equipaggiati di mille diavolerie tra le quali una livella da muratore, e non avevano i cavi per la batteria….mah!), ed averli abbandonati riprendendoci i cavi perché persino noi abbiamo capito che a quella moto non arrivava la benzina, ci rimettiamo in strada per gli ultimi 45 chilometri.
Che tra gole pazzesche, torrenti gonfi d’acqua che mal ci lasciano sperare per la Bartang Valley che dovremo fare tra qualche giorno, e altri milioni di pietre ci portano alla balconata che improvvisamente si spalanca sulla Wakhan, sul fiume Panji che qui incontra il fiume Pamir, sull’Afghanistan e sull’oasi incredibilmente verde di Langar, nostra meta per oggi.
Dopo una 10 minuti di panico per un rumore tipo cavi elettrici che friggono che proviene dalla mia moto, tiriamo un sospiro di sollievo constatando che sono andati a farsi benedire i faretti a led cinesi da 16€. Poco male, sorrisi, pacche sulle spalle….
Stasera si dorme nella guest house di un signore simpatico che  non la smette di offrirci albicocche. La doccia nuovamente è acqua di torrente ghiacciata, la cena una sbobba molliccia di macaroni, carote, qualche patata ed erba cipollina come se non ci fosse un domani, pane di giugno e chai per mandare giù tutto.

Se non funziona, poi provo con il WD40.

Benvenuti a Frittole

I 30 chilometri che dalla guesthouse di Matiev ci separano dalla frontiera kirgiza fanno di tutto per farti centrare ogni buca (cratere) presente sull’asfalto. A sinistra ghiacciai, e dietro di essi la Cina, a destra la mole imponente del picco Lenin che è distante quasi 100 chilometri ma sembra di poterlo toccare.
Pratiche doganali kirgize veloci, il solito guado color cioccolato mai brutto come quattro anni fa, le foto di rito con la statua del caprone cornuto sul passo Kyzyl Art che precede di poche centinaia di metri la frontiera tajika. Passiamo da un casotto di lamiera all’altro, da un container pieno di mosche al cassone di un camion adibito ad alloggio, da un soldato ad un altro, da una tassa ed un obolo all’altro: soldi per la disinfestazione delle moto (acqua e sapone probabilmente, spruzzati svogliatamente sulle ruote), soldi per l’uso della strada, tassa per l’accesso alla regione del Gorno Badakshan (il Pamir insomma)….insomma avete presente? CHI SIETE? COSA VOLETE? DOVE ANDATE? UN FIORINO !!
Ce la prendiamo con una calma infinita ri-familiarizzando con il paesaggio lunare, e quando mi fermo dopo un piccolo guado per fare un video a Giacomo questo arriva dopo 5 minuti buoni, guada senza arroganza e si ferma per mostrarmi il suo parabrezza al quale sono saltate per aria 4 viti in un colpo solo (grazie al tole ondulè di qualche chilometro prima). Pezzottiamo malamente con le mie tristissime fascette comprate dai cinesi sotto casa (se ne spaccano 8 su 10) e abbondante nastro americano arancione. Fatto a cazzo ovviamente, ma robusto quanto basta per affrontare i 10 km di tole ondulè brutto che precedono il passo dell’Ak Baital.
Seratona a Murghab, una delle cittadine più povere e malconce che mi sia mai capitato di incontrare nei miei viaggi, dove la corrente elettrica è razionata a zone alternate (noi siamo nella zona 19-22), e anche quando te la danno i cali di tensione fanno accendere e spegnere le lampadine. Passeggiamo nel bazar (una lunga fila di container sgarrupati in mezzo ad un piazzale polveroso) e ceniamo con mati (delle specie di pelmeni, ravioloni di carne e verdure al vapore) alle 18 nell’unico ristorantino del paese, e prima delle 22 siamo in branda.

Livin’ la vida loca.

venerdì 28 luglio 2017

Non fare oggi quello che puoi fare domani

L’idea sarebbe di partire molto presto (sveglia alle 6.30) per arrivare ad Osh con un caldo un po’ meno che sfiancante. In realtà tra “Giacomino offreddoooo” e “ancora 5 minuti” e “mò questo dorme di nuovo” si fanno le 8.00.
Le pratiche per la ripartenza sono però più veloci del solito perché saltiamo la colazione (che faremo con due wafer di numero lungo la strada), perché Giacomino non se la sente di affrontare il cesso puzzolentissimo e quindi si risparmia tempo (io non oserei mai infilarmi la tuta e gli stivali senza aver fatto almeno una cacca in apnea), e tipo alle 9.30 siamo già on the road.
Nei viaggi precedenti da queste parti la combo caldo e traffico di Jalal-Abad e Osh (nostra meta) è sempre stata la spada di Damocle da affrontare obbligatoriamente perché dove vai vai in Kirgizstan devi passare da qui. La combo risulta ovviamente all’altezza delle aspettative, e quando arriviamo a destinazione siamo lessati dal caldo e dallo smog. La mia Honda per la prima volta da quando la possiedo mi dimostra che la ventola del radiatore funziona…pure lei ha patito questo caldazzo.
Ci rifugiamo belli belli alla TES Guesthouse a farci coccolare dall’aria condizionata, da un cesso vero e da una doccia senza salmoni che risalgono la corrente. Fatte le abluzioni a noi e a qualche vestito ci precipitiamo al bazaar a cercare un paio di ciabatte per Giacomino che da ieri è sofferente, e ne troviamo un bel paio stile nonno, rigorosamente made in Kirgizstan.
Scacciafighe insomma.
Il bazaar non è nulla di esotico, è un ammasso di container e bottegucce strette le une alle altre sotto le quali la cappa di caldo è anche più soffocante che all’aperto. Non siamo solo noi a soffrirne…nei 20 minuti di passeggiata abbiamo costeggiato il fiume pieno di gente in ammollo nelle acque perlomeno discutibili, e una enorme piscina ricavata da un gigantesco vascone di cemento e ferro arrugginito nella quale viene pompata l’acqua dello stesso fiume. Da noi manco le nutrie probabilmente ci farebbero il bagno.
Anyway….usciamo tardi per cenare, andiamo a letto tardi, ci svegliamo tardi e partiamo tardi stamattina, in pieno rispetto dei nostri piani di una vacanza si avventurosa ma anche leeeeentttaaaaaaa. Abbiamo tempo, perché sbatterci come in tutti gli altri viaggi fatti fino ad oggi?
Cazzeggiamo a 80-90 all’ora su per la strada che da Osh porta a Sary Tash, 180 km ben asfaltati che sono il prologo al Pamir. Il Taldyk Pass a 3560 metri è la porta di Sary Tash, sulla quale si spalanca la vista sui contrafforti delle montagne tajike.
Mentre controllo l’olio lungo la strada e facciamo rifornimento si ferma Matiev, un ragazzo di 22 anni di qui che ha una guest house e parla un buon inglese. Ci appollaiamo a casa sua che non sono neanche le 15, facciamo merenda, e poi semplicemente ce ne stiamo fuori a goderci il sole e l’aria piacevolmente fresca, a scattare foto alle montagne da 6/7000 metri che stanno di fronte a noi, a videochiamare gli amici e le famiglie a casa.

Domani entriamo in Tajikistan. Ma senza fretta.

giovedì 27 luglio 2017

Il viaggiatore scalzo

Ho fatto un rapido calcolo mentale della geografia di questa parte del mondo, e se non mi sbaglio le ciabatte di Giacomo tra qualche mese potrebbero impaludarsi in quel che resta del lago d’Aral
.
Ma andiamo con ordine….

Ripartiamo malvolentieri che già si suda brutto prima delle 10, costeggiando il lago Toktogul per diverse decine di chilometri. La strada è magnifica (la strada, non il solito asfalto ondulato) e ci regala scorci pazzeschi di acqua blu con sfondo di montagne aride giallo\marrone.
Che fa caldo l’ho detto? Si…e me lo sentirete dire ancora molte volte perché veramente non si respira nonostante non scendiamo mai sotto i 1000 metri di quota. Oggi ci siamo posti come obbiettivo la riserva naturale con il lago Sary Chelek che ci è stato caldamente consigliato da uno dei proprietari dell’hotel di Bishkek, un lago che my friend is like to be in The King of the Rings….Lord….Lord of the rings.
Tutti carichi di aspettative insistiamo sotto il sole per 250km fino ad arrivare all’ingresso del parco (che doveva essere dalle informazioni di Emil intorno ai 2000 metri ma qua stiamo ancora a 1100 e stiamo a schiattà). Gli ultimi 20 km sono tutti sterrati (evviva la moto adesso è sporca!) facendo zig zag tra pullmini e auto di turisti local diretti al lago.
Che, per dirla tutta, è una mezza cagata. Si cioè, bello eh…ma non c’è una mezza spiaggetta sulla quale spogliarsi di tutti i vestiti da moto per fare uno sguazzetto nelle acque fredde. In un solo punto circondato da spoglia terra battuta una cinquantina di persone schiamazzano scalando e scendendo una ripida sponda per rinfrescarsi.
5 minuti di orologio e ce ne andiamo un po’ stizziti per quello che doveva essere un posto della madonna e invece no.
Ma vi dicevo delle ciabatte di Giacomo. Scendendo dal lago decidiamo di trascorrere la notte in  una guesthouse nella quale prendiamo una yurta. Serve una doccia subito, siamo sudati e impolverati da far schifo, e come doccia ci indicano il torrente. Vabbè, daje…bagnetto e bucato.
Mentre si chiacchierava seduti su due sassi, con le palle al fresco a favore di corrente ecco che d’improvviso…un sussulto! E la povera ciabatta Decathlon che fluttua leggiadra tra la spuma, diretta a valle verso il fiume Naryn.
Diretta verso il Syr Daria.
Diretta verso l’Amu Daria
E infine, insciallah, al lago d’Aral

Dissolvenza....
SIPARIO

Falsa partenza

Stavo riflettendo sulla cabala dei viaggi, e mi sono accorto che nel primo viaggio in Pamir abbiamo avuto problemi al ritorno (il cardano di giacomo), nel secondo il giorno della partenza (la moto a noleggio di stefano), nel terzo a caponord al ritorno (il cardano di giacomo e no, non è un errore di ripetizione), in questo quarto viaggio la mia moto ha deciso di non partire nel giorno in cui siamo arrivati a Bishkek. Batteria a terra, senza acqua probabilmente per una mia negligenza pre-partenza. Sarà un segno? PAURA EH?!
C’è comunque un che di confortante nell’essere fermi in una capitale vivace, con persone che ti aiutano, e alla vigilia di un viaggio che per una volta ha un roadbook che ci lascia ampio margine. O meglio….non abbiamo un programma ma 4 settimane di tempo, e questo è una novità lussuosa per noi.
Quando finalmente la mia batteria è stata ricaricata, tempo un’ora persino le mie inette mani da meccanico riescono a rimontare tutto e caricare i bagagli. Lo so che tra quelli che leggono ci sono molti che erano pronti a sfottermi nel caso avessi fritto tutto l’impianto elettrico montandolo a cazzo J
La prima meta è il lago di Toktogul, che dista 280 km. I primi 100 ce li ricordiamo bene (passammo di qui nel 2013 diretti in Kazakhistan) e sono una giungla di traffico, smog che brucia occhi e polmoni, caldo soffocante, slalom tra le macchine che si spostano come se fosse Outrun sul Commodore 64. A Kara Balta finalmente la strada piega verso sud abbandonando la direttrice Bishkek-Taraz, la strada comincia a salire e tempo qualche decina di chilometri iniziamo quantomeno a respirare.
Continuo a tenere un occhio incollato al voltimetro che misura la carica della batteria in preda ad attacchi multipli di seghe mentali, ma poi decido che è molto meglio tenere d’occhio l’ampia striscia di asfalto che sale fino ai 3200 metri del passo Nonmiricordo. Ci sono da evitare camion contro mano, auto contro mano, improvvisi pezzi sterrati, pecore contro mano, tratti di asfalto talmente tanto sminchiato dal passaggio dei camion che sembra abbiano appositamente asfaltato su sconnessioni a forma di onda del mare.
Le moto, ovviamente, si fanno meno problemi di noi nonostante l’altitudine (altro cruccio che avevo, essendo la mia moto a carburatori). Scesi dal passo troviamo giusto il tempo per fare i deficienti cantando Manamanà duddududududu davanti alla statua di Manas, lasciare che 3 bulletti palestrati si facciano un reportage fotografico sulla mia moto, e risalire a 3150 metri su un secondo passo Chenonmiricordo (e studiatevi le cartine geografiche c....ribbio!!) avendo il culo di evitare un temporale brutto. Ma brutto-brutto-brutto eh!
Siamo già nella modalità viaggio asiatico, cioè colazione scarsa, pranzo niente, merendina con chai e pezzo di pane (con la marmellata se va bene), e per cena segno della croce sperando che sia abbastanza corposa da compensare il resto. La verità è che siamo abituati, almeno io, a mangiare come un cinghiale selvatico quando sono a casa e qui i primi giorni guardo le persone come se fossero porchette. Tutta questione di abituarsi…
Toktogul (la città non il lago) si trova a qualche chilometro da Toktogul (il lago, non la città). Smadonniamo un po’ per trovare una guesthouse, e alla fine ci piazziamo in una in cui i ragazzi che la gestiscono appaiono quantomeno confusi sul da farsi. Si uniscono a noi due ragazze svizzere che stanno terminando il loro viaggio di un mese in Kirghizstan: Piera che ci procura le birre (nonostante le abbia detto che il mio gatto si chiama come lei) e Anais che ha il colorito di uno che è appena sceso dall’ottovolante e non si è trovato benissimo.