La signorina dell’hotel di Murghab ci ha fatto una mossa
Kansas City spiegandoci l’orario del Tajikistan, e quindi non so se sto
fissando il soffitto alle 5 di mattina o alle 6. Fuori c’è già luce che filtra
dalla finestra lasciata aperta perché saremo anche a 3800 metri ma fa caldo
come alla fiera della sarabiga di Fabbrico (questa è per te Fabri !!) il 15 di
agosto.
A colazione schivo l’ennesimo piatto di uova che potrebbero
ricordare alla mia intolleranza di scatenare su di me la maledizione di
Montezuma (la colite insomma) ingurgitando a fatica due pezzetti pane burro e
marmellata e qualche sorso di caffè annacquato.
Oggi abbiamo la seria intenzione di sfatare una chimera dei
nostri precedenti viaggi in queste terre, ovvero mettere le ruote nella Wakhan
Valley, una sottile striscia di terra incastrata tra l’Afghanistan e il
Tajikistan nella quale le catene montuose del Pamir e dell’Hindukush si
incontrano. Scelte troppo prudenti e sfighe assortite fino ad ora ci hanno
tenuto lontani dalla Wakhan, e ora chilometro dopo chilometro ci avviciniamo
alla deviazione che dalla M41, ovverosia la Pamir Highway, punta dritto verso
sud.
Ci fermiamo ad Alichur per un chai, mancano 23 chilometri e
anche se non ce lo diciamo apertamente, pare che stiamo gustandoci ogni momento
prima di imboccare la pista…
Mi sussurro un “dai!” nel casco mentre abbandoniamo
l’asfalto. La strada è sterrata ma assolutamente non difficile, guidiamo
lentamente guardandoci intorno salendo verso i 4350 metri del Kargush Pass tra
roccia e qualche buca di sabbia. Dietro una curva trovo una jeep con una moto
sul tetto legata ad un portapacchi, il guidatore intento a rimettere a posto il
paraurti spaccato e una ragazza bionda che scende al volo dall’auto e mi viene
incontro di corsa
“Do you speak english?” mi chiede, e attacca a spiegarmi che
la sua moto si è rotta, che il suo ragazzo è rimasto indietro e che forse anche
lui ha dei problemi, che questi uomini tajiki la scaricheranno al prossimo
paese (la Alichur del nostro ultimo tè), e mi chiede di informare il suo
ragazzo di tutto questo. Le chiedo se lei sta bene, se è tutto ok, e mi
risponde “yeah, yeah, i’m ok…” salvo poi girarsi di me con gli occhi pieni di
lacrime. Ci abbracciamo velocemente e le dico che andrà tutto bene, che poi
saranno queste le cose che racconterà con più piacere di questo viaggio. Sembra
credermi asciugandosi le lacrime, come se sapesse che io e Giacomo siamo
piuttosto esperti in materia….
Nei chilometri successivi guido con l’unico pensiero di
trovare il ragazzo con la Honda XL rossa, e quando finalmente lo incontriamo
gli spieghiamo tutto. Tutto ok, tra un paio d’ore si ritroveranno e potranno
pensare a come sistemare la moto di lei.
Passiamo il check point militare ai piedi del Kargush Pass e
costeggiando il fiume Pamir scendiamo tra gole e roccia, montagne spoglie e
assolutamente brulle. In lontananza appaiono e scompaiono cime a forma di
piramide perfetta, altissime e coperte di ghiacciai. Siamo oltre 4000 metri,
quelle saranno più di 7000….
Il paesaggio è schiacciante, talmente imponente e maestoso e
selvaggio da impedirmi di guidare decentemente. Un po’ contribuisce la mia
solita paura (terrore, meglio) del vuoto, un po’ pietre e sabbia pronte a
togliermi il manubrio di mano appena mi deconcentro un momento. Non è stato
certo il giorno in cui mi sia divertito di più a guidare, ma di certo è stato
uno di quelli che racconterò ai (vostri) nipoti. E a Piero.
Dopo aver perso un’ora buona appresso ad un gruppo di
motociclisti svizzeri con tanto di jeep d’appoggio ma una moto in panne (questi
stavano in 15, equipaggiati di mille diavolerie tra le quali una livella da
muratore, e non avevano i cavi per la batteria….mah!), ed averli abbandonati riprendendoci
i cavi perché persino noi abbiamo capito che a quella moto non arrivava la
benzina, ci rimettiamo in strada per gli ultimi 45 chilometri.
Che tra gole pazzesche, torrenti gonfi d’acqua che mal ci
lasciano sperare per la Bartang Valley che dovremo fare tra qualche giorno, e
altri milioni di pietre ci portano alla balconata che improvvisamente si
spalanca sulla Wakhan, sul fiume Panji che qui incontra il fiume Pamir,
sull’Afghanistan e sull’oasi incredibilmente verde di Langar, nostra meta per
oggi.
Dopo una 10 minuti di panico per un rumore tipo cavi
elettrici che friggono che proviene dalla mia moto, tiriamo un sospiro di
sollievo constatando che sono andati a farsi benedire i faretti a led cinesi da
16€. Poco male, sorrisi, pacche sulle spalle….
Stasera si dorme nella guest house di un signore simpatico
che non la smette di offrirci
albicocche. La doccia nuovamente è acqua di torrente ghiacciata, la cena una
sbobba molliccia di macaroni, carote, qualche patata ed erba cipollina come se
non ci fosse un domani, pane di giugno e chai per mandare giù tutto.
Se non funziona, poi provo con il WD40.